COMUNICHIAMO A TUTTI
I CAMERATI CHE IL
NUOVO INDIRIZZO MAIL E' IL SEGUENTE :
comitatomartirirovetta@gmail.com
“Con l’avvicinarsi della
primavera, il 28 aprile di ogni anno, sull’ imbrunire, dalla strada che scende
dal Passo della Presolana, raffiche di vento strisciano tra le case poste sotto
la montagna, rumoreggiando sulle pietre della via come un passo chiodato;
sembra un passo cadenzato: è il marciare dei Ragazzi della Tagliamento, quando
di pattuglia, scendevano a valle cantando“…per voi ragazze belle della via che
avete il volto della primavera, per voi che siete tutta poesia e sorridete alla
camicia nera…”
Si! è il cantare dei Legionari trucidati a
Rovetta, che tornati in quella vallata, risalgono sulla Presolana, dove ogni
notte sono di pattuglia; cantano, marciano e, mentre attendono giustizia, si
chiedono e chiedono "PERCHE’ ?"
(tratto dal libro "ONORE-Una
strage; perché? Rovetta 28 aprile 1945" a cura di Giuliano Fiorani)
ANDRISANO Fernando,
anni 22
AVERSA Antonio, anni
19
BALSAMO Vincenzo,
anni 17
BANCI Carlo, anni 15
BETTINESCHI Fiorino,
anni 18
BULGARELLI Alfredo,
anni 18
CARSANIGA Bartolomeo
Valerio, anni 21
CAVAGNA Carlo, anni
19
CRISTINI Fernando
anni 21
DELL'ARMI Silvano,
anni 16
DILZENI Bruno, anni
20
FERLAN Romano, anni
18
FONTANA Antonio, anni
20
FONTANA Vincenzo,
anni 18
FORESTI Giuseppe,
anni 18
FRAIA Bruno, anni 19
GALLOZZI Ferruccio,
anni 19
GAROFALO Francesco,
anni 19
GERRA Giovanni, anni
18
GIORGI Mario, anni 16
GRIPPAUDO Balilla,
anni 20
LAGNA Franco, anni 17
MARINO Enrico, anni
20
MANCINI Giuseppe,
anni 20
MARTINELLI Giovanni,
anni 20
PANZANELLI Roberto,
anni 22
PENNACCHIO Stefano,
anni 18
PIELUCCI Mario, anni
17
PIOVATICCI Guido,
anni 17
PIZZITUTTI Alfredo,
anni 17
PORCARELLI Alvaro,
anni 20
RAMPINI Vittorio,
anni 19
RANDI Giuseppe, anni
18
RANDI Mario, anni 16
RASI Sergio, anni 17
SOLARI Ettore, anni
20
TAFFORELLI Bruno,
anni 21
TERRANERA Italo, anni
19
UCCELLINI Pietro,
anni 19
UMENA Luigi, anni 20
VILLA Carlo, anni 19
ZARELLI Aldo, anni 21
ZOLLI Franco, anni 16
CIMITERO DI ROVETTA LA TOMBA
CIMITERO DI ROVETTA LE LAPIDI
ZOLLI Franco, anni 16
CIMITERO DI ROVETTA LA TOMBA
CIMITERO DI ROVETTA LE LAPIDI
LA STRAGE DI LOVERE (Bg)
8 GIUGNO 1945
LA TOMBA NEGLI ANNI 60
Le promesse dei vili
l’inganno e il tradimento
Mercoledì 25 aprile 1945 un
piccolo presidio della 1^ Legione "M" d'Assalto “Tagliamento”, 26
militi della 4^ Cmp - II Rgt - di stanza nell’edificio delle scuole elementari
a Piancamuno in Val Canonica venne sorpreso
da un gruppo di partigiani fra i quali vi erano dei polacchi in divisa
tedesca. Malgrado la sorpresa i Legionari reagiscono, ma le perdite sono gravi
: 9 morti fra cui il comandante aiutante maresciallo Ernesto Tartarini e tre
feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, viene ucciso
insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedono
al fuoco intenso dei Legionari superstiti e si ritirano. A questo punto giunge
in aiuto una squadra del plotone Guastatori al comando del Vice Brigadiere
Amerigo De Lupis. Egli si rende conto che i tre feriti che giacciono
all’Ospedale di Darfo non hanno una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti,
Sandro Fumagalli, muore la mattina del 26, Allora nel pomeriggio il De Lupis,
con una piccola scorta, porta i due feriti. ancora vivi all’ Ospedale di Lovere,
sul lago d’Iseo. Ma egli non sa che i partigiani stanno occupando la città. Al
mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R.
comandato dal Ten. Agostino Ginocchio si è arreso a un gruppo di partigiani e
altri partigiani stanno affluendo dalle montagne. Così il De Lupis e i suoi
uomini vengono sorpresi all’uscita dall’ Ospedale e catturati. Condotti presso
la casa canonica (Palazzo Bazzini) che veniva utilizzata come prigione, vennero
rinchiusi insieme agli uomini del Ten.
Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti
pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20
anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura
Cordasco, così fu condotto in chiesa col De Lupis e il commilitone Vito
Giamporcaro come testimoni. Ma poichè la cerimonia si prolungava i partigiani
condussero via tutti gli uomini del De Lupis e li portarono dietro il cimitero
dove furono massacrati con raffiche di mitra. Gli uccisi furono sei: Amerigo De
Lupis, Aceri Giuseppe, Femminini Giorgio, Mariano Francesco, Giamporcaro Vito,
Alletto Antonino. I due Legionari: Le Pera Giovanni e De Vecchi Francesco,
ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni
giorno percossi e maltrattati e, infine, prelevati da partigiani fra il 7 e l’
8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, percossi, seviziati e,
infine, gettati nel lago e annegati.
Nella foto, il Vice
Brigadiere Amerigo DE LUPIS
Emilio Le Pera e
Francesco De Vecchi
rapiti dai partigiani dall’ospedale e gettati vivi nel lago. Questa è
un’altra storia dimenticata da tutti. Ma è una delle più tragiche di quei
tristissimi giorni. Non si impara a scuola. Sono passati esattamente 72 anni da
quel massacro che ora rievocheremo. Lovere, in provincia di Bergamo, sul lago
d’Iseo, fu teatro della una morte atroce di due giovanissimi legionari della
Tagliamento della Repubblica Sociale Italiana, Emilio Le Pera e Francesco De
Vecchi, uccisi dai partigiani l’8 giugno 1945, a guerra finita da un pezzo. Le
circostanze atroci in cui sono morti Le Pera e De Vecchi meritano di essere
ricordati, perché purtroppo la sorte di questi due ragazzi è spesso “oscurata”
da quella, altrettanto atroce, dei 43 giovani, anche loro della Rsi, avvenuta qualche
giorno prima a Rovetta. La storia nella zona è molto nota, ma è stata
raccontata in diversi libri, tra cui quello di Giampaolo Pansa I gendarmi della
memoria. Le Pera e De Vecchi furono torturati e gettati vivi nel lago d’Iseo.
De Vecchi e Le Pera erano due militi della Tagliamento. Dopo uno scontro armato
con i partigiani, alcuni legionari rimasero feriti, tra cui Le Pera, 22 anni da
Catanzaro, rimasto gravemente ferito alle gambe, e De Vecchi, 19enne nato
nell’Alessandrino. Trasferiti all’ospedale di Lovere, rimasero degenti vegliati
dalle loro famiglie. I partigiani garibaldini erano frattanto arrivati a
Lovere, e i superstiti militi della Gnr si arresero a loro. Il 30 aprile
vennero tutti fucilati all’esterno del cimitero. Lo strazio delle madri che
tentavano di fermarli Intanto i due feriti soffrivano atrocemente, erano sedati
con la morfina. Ciononostante, secondo le testimonianze, i partigiani, dopo una
cena in una vicina trattoria, da Cino, decidevano di assassinarli. Già nei
giorni precedenti entravano nell’ospedale per insultarli e minacciarli.
Rammenta la sorella di Francesco: “Tutti i giorni, dei partigiani venivano a
trovare Beppe, un loro compagno, ricoverato. Erano sempre percosse per mio
fratello e per l’amico Le Pera”. Il dottor Tullio Corazzina, medico del
medesimo ospedale, in un rapporto steso dai carabinieri locali, il 4 aprile
1957, così dichiarava: “Ricoverati per numerose e gravissime ferite, i due
furono durante la loro degenza, soggetti di ripetute angherie e di continue
minacce”. Finché, la sera del 7 giugno arrivarono quattro partigiani armati e
li portarono via di peso, dopo aver tagliato i fili del telefono dell’ospedale.
Alle famiglie che cercavano di fermarli dissero che li avrebbero sottoposti a
processo. Fu un’altra menzogna: i due giovani agonizzanti vennero gettati in
riva al lago, sul molo di sant’Antonio, e percossi con sbarre di ferro. Alla
fine, li buttarono nel lago, probabilmente ancora vivi, anche se in condizioni
disperate. Giorno 8 giugno 1945: inutili le ricerche della madre e della
sorella dei due giovani: hanno cercato ovunque le due donne disperate. Hanno
chiesto, a tutti, ma nessuno conosce il fatto. Si trovano solo tracce di sangue
sul pontile, vicino al lago. Dei ragazzi non si hanno notizie. Riprendiamo la
deposizione del medico dell’ospedale di Lovere: “…prelevano, dal loro letto, i
due feriti sanguinanti e, sordi alle implorazioni di una madre, li trascinano
in riva al lago e, dopo averli seviziati, li gettarono nelle acque”. Il lago
d’Iseo non restituirà mai più i loro corpi. Fu un’efferatezza ingiustificabile:
se è già grave uccidere dei prigionieri senza processo e a guerra finita,
torturarli e assassinare prigionieri feriti è una colpa ancora peggiore.
Bastano episodi come questo, in mancanza di scuse e di pentimento, per gettare
fango sulla lotta partigiana, anche perché non ci sono notizie che i colpevoli
siano stati mai sottoposti a processo.
di ANTONIO PANNULLO
CANTONIERA DELLA
PRESOLANA - L' ALBERGO FRANCESCHETTI
DOVE ALLOGGIAVANO I
MILITI DELLA TAGLIAMENTO
LE SCUOLE ELEMENTARI
DI ROVETTA.
QUI VENNERO PRELEVATI I MILITI
QUI VENNERO PRELEVATI I MILITI
DELLA TAGLIAMENTO E
PORTATI ALLA FUCILAZIONE
VETTA LOCALITA'
GRATAROLA : I RESTI DELLA BAITA CHE OSPITO'
I LEGIONARI NELLA NOTTE TRA IL 27 E 28 APRILE
1945
IL MURO DOVE AVVENNE L'ECCIDIO
I FORI DI PROIETTILE NEL MURO
SETTEMBRE 1945
LE FOSSE COMUNI NELLE QUALI FURONO BUTTATI
LE FOSSE COMUNI NELLE QUALI FURONO BUTTATI
I CORPI DEI 43
TRUCIDATI
IL GIOVANISSIMO LEGIONARIO VINCENZO (ENZO) AUSILI,
SCAMPATO ALL’
ECCIDIO DI ROVETTA, INSIEME AL CAPPELLANO DELLA LEGIONE PADRE ANTONIO
INTRECCIALAGLI,
FOTOGRAFATO SUL MONTE GRAP
Di Franca Poli
Da settant’anni l’Italia, ogni anno, il 25 aprile celebra la
liberazione, la fine vittoriosa della guerra antifascista. Il riferimento è
dato dalla coincidenza col giorno in cui il Comitato di Liberazione nazionale
dell’alta Italia (Clnai) proclamò l’insurrezione della popolazione e delle
forze partigiane contro il nemico nazifascista. In realtà festeggiamo ancora
oggi un fatto che non avvenne: non si verificò mai nessuna sommossa popolare e,
se è vero che le città si svuotarono di presidi militari tedeschi e italiani,
fu perché gli stessi si ritirarono. Solo con l’arrivo delle prime jeep
americane le vie e le piazze presero ad animarsi e fecero la loro comparsa
individui stranamente vestiti con addosso accozzaglie di cappelli e divise, che
imbracciando armi, in molti casi mai usate esibivano bracciali tricolori o fazzoletti
rossi nuovi fiammanti.E qui potremmo aprire il balletto delle cifre riguardanti
il numero dei partigiani che aumentò vertiginosamente a “liberazione” avvenuta.
In quei giorni, i tedeschi oramai avevano stipulato un accordo con gli
angloamericani per una pace separata e raggiunsero pressoché indisturbati il
confine col Brennero. I reparti della RSI, senza ordini precisi, alcuni si
avviarono verso il ridotto della Valtellina, altri invece, ormai tagliati fuori
decisero di sciogliersi, di provare a raggiungere le loro abitazioni e, nella
confusione del momento, taluni invece consegnarono spontaneamente le armi alle
bande partigiane. C’era stato un preciso invito a farlo, ripetuto via radio da
giorni, in cui il Clnai esortava alla resa garantendo il riconoscimento della
condizione di prigionieri di guerra. In realtà mentre si cercava di offrire al
popolo italiano l’immagine di una “Resistenza” rispettosa delle convenzioni
internazionali, era invece stata avviata una sanguinosa e spietata resa dei
conti in cui sarebbero incappati non solo i fascisti che avevano aderito alla
Repubblica Sociale, ma anche i civili che erano iscritti al Pfr o semplicemente
giudicati simpatizzanti. Appelli insomma, in cui si assicurava la salvezza e il
trattamento secondo la legge di guerra, mentre in realtà spesso veniva attuata
una disposizione “segreta” emessa dal Corpo volontari della Libertà (Cvl) che
stabiliva chiaramente che gli appartenenti alle Brigate repubblicane e tutte le
truppe volontarie erano considerate fuori legge e condannati a morte. Uguale
trattamento andava riservato anche ai feriti trovati sul campo e in caso
fossero fatti dei prigionieri, dopo l’interrogatorio, andavano eliminati entro
le tre ore. E’ il caso di aprire una parentesi per ricordare come in Emilia
Romagna si verificarono i crimini più efferati, negati dalla storiografia
partigiana e venuti a conoscenza dell’opinione pubblica solo in epoca recente.
Nel territorio compreso fra le province di Bologna, Reggio, Ravenna e Ferrara,
denominato poi il triangolo della morte o triangolo rosso, a guerra finita, e
fino al 1949, si scatenò una vera e propria rappresaglia ai danni di civili che
restarono vittime di vendette gratuite. Persone che addirittura non erano state
di convinta fede fascista, ma di orientamento moderato e che, concluse le
ostilità, divenivano altrettanti nemici della sempre auspicata rivoluzione
comunista. Gli attivisti delle brigate partigiane del partito comunista
nascosero e conservarono nel territorio dei depositi di armi che, non a caso,
finirono successivamente, durante un altro buio periodo della nostra storia,
nelle mani degli apprendisti terroristi di formazione extraparlamentare e
clandestina rifacentesi alle “volanti rosse” che avevano scorazzato impunite
nella nebbiosa pianura padana, ma questa è un’altra storia. Quello di cui oggi
voglio raccontare è l’episodio riguardante un reparto di giovani militi che
trovarono un’atroce morte per mano di banditi unilateralmente spacciatisi per
liberatori. La legione d’assalto Tagliamento della Guardia Nazionale
Repubblicana era composta da circa 1400 uomini al comando del console Merico
Zuccari. Comprendeva due battaglioni: il 63° composto per lo più di veterani, e
il battaglione della Camilluccia, formatosi a Roma dopo l’armistizio con
l’adesione di giovani e giovanissimi operai e studenti che, vista la vergogna
nazionale dell’8 settembre, avevano sentito il dovere di servire la Patria e
aderire alla RSI. Mentre il grosso della legione si ritirava verso il
Tonale, gruppi eterogenei erano rimasti isolati nei presidi più defilati della Valcamonica. Un reparto, staccato dal grosso del contingente, era agli ordini del sottotenente Roberto Panzanelli. Si trattava di un plotone della sesta compagnia del battaglione Camilluccia, composto di trentaquattro elementi, molti dei quali giovanissimi. Durante gli ultimi giorni delle Repubblica si era attestato nell’albergo della famiglia Franceschetti presso il passo della Presolana in Valcamonica e, con ogni probabilità, fu proprio lì che Panzanelli ascoltò gli appelli radiotrasmessi che invitavano alla resa con l’assicurazione dello “status” di prigionieri di guerra e durante i quali veniva anche opportunamente comunicata la ormai quasi totale resa dei reparti operanti nel territorio. Dopo una breve consultazione con i suoi uomini il sottotenente, chiese al proprietario dell’albergo di accompagnarlo fino al vicino paese di Clusone, dove era attestata una esigua forza di partigiani locali, coi quali intendeva trattare la resa. Scendendo lungo la valle con la bandiera bianca, non si imbatterono in nessun gruppo di partigiani in cerca di gloria, l’unico incontro che fecero fu quello con un drappello di altri tredici legionari che, dopo alcune resistenze iniziali, si unirono a loro. I militi scendevano marciando in triste silenzio per valli e sentieri, erano lontani i giorni in cui risuonavano i rumori dei loro baldanzosi passi chiodati che si confondevano con le note dei canti “…per voi ragazze belle della via che avete il volto della primavera, per voi che siete tutta poesia e sorridete alla camicia nera…” La sera del 26 aprile 1945 si presentarono in fila a Rovetta, poco distante dalla meta che volevano raggiungere. Un paesino che è tuttora una piacevole località alle pendici delle Alpi Orobiche e che accolse con stupore e una certa indifferenza i nuovi arrivati. La popolazione infatti al posto dei fanatici sanguinari descritti dalla propaganda antifascista, vide sfilare per le strade dei ragazzi dallo sguardo sperduto, disorientato, tutti di un’età compresa tra i quindici anni dei più giovani e i ventidue dei più anziani. Sotto quegli elmetti, che per alcuni risultavano troppo grandi, le persone alle finestre, affacciate alle porte delle loro case, scorsero soltanto visi scavati da una stanchezza fisica e morale, dovuta sì alla marcia logorante, ma soprattutto alla tristezza di avere ancora nell’animo il forte desiderio di non abbandonare la lotta. Il plotone fu accolto da don Bravi, il prete del posto e da un ufficiale dell’ex regio esercito, il maggiore Giuseppe Pacifico, responsabili coordinatori della resistenza locale, i cosiddetti “patrioti” appena costituitisi, dopo la data del 25 aprile. Il comandante Panzanelli si intrattenne a lungo a colloquio con loro e, solo dopo aver ricevuto tutte le assicurazioni e le più ampie garanzie di salvezza per i suoi uomini, si apprestò a firmare la resa. La decisione non fu ampiamente condivisa dai militi, lo testimonia il racconto del legionario Fernando Caciolo, allora quindicenne “la triste notizia mi colse mentre insieme a pochi commilitoni stavo consumando qualche panino seduto su un muricciolo ai margini del paese. Due camerati vennero ad avvisarci (…)dopo una prima scomposta reazione rabbiosa, profondamente delusi, decidemmo di proseguire da soli(…)Poco dopo il Pacifico cominciò ad arringarci, invitandoci a deporre le armi, ad evitare altro spargimento di sangue tra italiani a guerra oramai conclusa, chiamandoci fratelli e garantendoci il trattamento dei prigionieri di guerra(…)ne seguì un abbraccio fra il nostro comandante e questo individuo, per cui seppur con profonda amarezza, ci accingemmo a deporre le armi sul pavimento, cosa che anche io feci mentre le lacrime mi riempivano il viso e mi sentivo umiliato e indifeso”(testimonianza di Caciolo, Anagni 22 novembre 1998). Dopo la firma della resa avvenuta tra il sottotenente Panzanelli e i due responsabili (documento peraltro di cui si sono perse le tracce e mai più ritrovato) i giovani vennero chiusi in alcune aule scolastiche messe a disposizione dal “comitato di accoglienza” poterono così riposarsi e rifocillarsi grazie al cibo offerto loro dalla popolazione. In zona oltre ai rappresentanti locali della resistenza, si aggiravano gruppi di sbandati che, a differenza, si definivano partigiani veri e propri e che si vantavano di questa particolare distinzione perché meritevoli, a loro dire, di aver militato in armi contro il nemico nazifascista. A sconvolgere la sostanziale tranquillità che regnava in paese, appena si sparse la notizia che a Rovetta, con la resa della Tagliamento, avevano, senza colpo ferire, riempito “l’armeria”, arrivarono tutti i gruppi di imboscati che si trovavano nei pressi e quella mattina del 27 aprile nel cuore della Valcamonica, si trovarono riuniti, per spartirsi il bottino e prendersi il merito dell’arresto, i principali esponenti della resistenza del posto. Così presto riemersero le contraddizioni e i contrasti che avevano caratterizzato questi gruppi fino ad allora. Come ben sappiamo in alcuni casi lo scontro tra le varie formazioni di tendenze opposte non si era limitato all’ambito dialettico, ma era sfociato in vere e proprie faide conclusesi con la eliminazione fisica degli avversari. Ricordiamo uno su tutti il caso eclatante di Porzus in Friuli, avvenuto nel febbraio precedente, quando i comunisti capitanati da “Geko”, passarono per le armi, senza tanti complimenti, i partigiani della brigata monarchica Osoppo. Fra questi lo zio del famoso cantante Francesco De Gregori. Dunque quella mattina c’erano tutti, Fiamme verdi, militanti della brigata Camozzi, rifacentesi al Partito d’Azione e rappresentanti della 53a brigata Garibaldi, di fede comunista. Ad accompagnarli vi era anche uno strano e misterioso uomo, che si ignorava precisamente chi fosse, si sapeva con certezza che si faceva chiamare il Moicano e che si trattava di un ufficiale del Soe (Special Operations Excutive). Un servizio di collegamento con l’esercito inglese per tenere sotto controllo le velleità rivoluzionarie della resistenza. Chi avesse disposto di uccidere i militi, ancora oggi è rimasto un mistero, perché vigliaccamente da par loro, dopo la guerra e durante le fasi processuali, si sono accusati l’un l’altro, si sono nascosti dietro assenze vere o fittizie, si sono scambiati nomi e identità e tutti quasi di comune accordo, indicarono il Moicano come colui che diede l’ordine, cosa peraltro smentita dallo stesso don Bravi, ma la realtà dei fatti non cambia, in seguito a quella malaugurata riunione di infami, il 27 aprile si decise l’eliminazione dei militi repubblicani della Tagliamento. In quelle ore venne prelevata da casa anche la giovane Amelia Angeloni colpevole di essere la fidanzata di un sottoufficiale già detenuto alla scuola di Rovetta. Fu condotta anch’essa nei pressi dell’edificio scolastico dove un uomo della Camozzi, tal Angelo Rossi detto “Buchi”, voleva prelevarla insieme al fidanzato per condurla in un cascinale fuori paese, solo l’intervento del maggiore Pacifico evitò il peggio, la ragazza fu lasciata fuggire e si nascose in casa di un abitante di Rovetta. Il maggiore però non mostrò altrettanto impegno nel salvare la vita dei militi della Tagliamento, perché da quel momento si fece di nebbia, lasciandoli sotto la custodia del parroco e di pochi altri paesani. Nel dopoguerra durante la testimonianza resa dal prete risultò aver detto testualmente prima di allontanarsi” Ho incontrato i comandanti partigiani della zona e mi dissero li facciamo fuori. Io risposi di non volerci entrare. Il “Buchi” messo in stato di all’erta dall’atteggiamento incerto assunto dal Cln di Rovetta, non perdeva di vista i combattenti repubblicani trasferiti e abbandonati dal Pacifico in una baita fuori dal paese. Verso sera al comando di un gruppo dei suoi, fece irruzione nel rifugio e, sotto la minaccia delle armi (forse le stesse da loro consegnate) i militi vennero derubati delle giacche a vento, delle mostrine e delle decorazioni, preziosi souvenirs da sfoggiare a guerra finita a riprova della militanza nelle file della resistenza. Racconta il sopravvissuto Fernando Caciolo “Il “Buchi” e tutti gli altri presero a gozzovigliare e si divertivano a immaginare di quale morte ci avrebbero ucciso, se tramite fucilazione o per impiccagione o ambedue, per il giorno successivo: queste le affermazioni che dal sovrastante locale ci venivano trasmesse a squarciagola. Ad ore alterne scendevano a maltrattarci, bastonarci e depredarci, tanto che a me fu strappata un’armonica a bocca regalatami dal compianto capitano Alberto Martinola, comandante la mia compagnia di appartenenza, la quinta, e caduto sul Mortirolo…” Fu una lunga notte, gran parte dei Legionari capì che quelle sarebbero state le loro ultime ore di vita e si preparavano con rassegnazione al peggio, mentre altri ostinatamente cercavano di trovare conforto nelle promesse fatte dai comunicati radiofonici e dalla parola data dai membri del comitato di liberazione di Rovetta. Era ancora buio, un’alba umida e grigia si alzava su un triste 28 aprile, i ragazzi della Tagliamento emaciati, feriti, infreddoliti vennero incolonnati all’esterno della baita e una leggera pioggia primaverile bagnava quei giovani visi già rigati di lacrime, mentre con le armi spianate i banditi conducevano il corteo verso il paese. Ad accoglierli vi erano tutti: altri partigiani della Camozzi, alcuni della 53° Garibaldi, il Moicano, Bepi Lanfranchi e Zaverio Fornoni, Bortolo Gusmeri, Battista Torri e non so chi dimentico in questo deprecabile elenco, ma nessuno poteva mancare al piacere di assistere e partecipare alla ormai decisa eliminazione dei fascisti della Tagliamento. Il prete don Bravi, (o “don Abbondio”?), oramai unico custode dei prigionieri dopo che Pacifico si era defilato, provò senza successo e forse con poca convinzione, almeno all’inizio, a intervenire in difesa dei legionari. Il sottotenente Panzanelli, era un timido giovane ventiduenne, con gli occhiali, poco più che ragazzo, con poca esperienza e con incarichi più grandi della sua età. Quando fu brutalmente informato dai nuovi arrivati del crudele destino che sarebbe toccato a lui e ai suoi soldati, provò a protestare, chiese udienza e, condotto davanti al comandante dei partigiani presenti, fu preso a pugni e schiaffi, tanto che gli fecero cadere gli occhiali. Cercò inutilmente di esibire la copia dell'atto di resa, ma fu fatto a pezzi davanti ai suoi occhi, chiese ancora che fosse lui soltanto a pagare, sollecitando per i suoi soldati un trattamento equo così come previsto dai patti sottoscritti, ma per tutta risposta gli strapparono gli ultimi effetti personali e gli sputarono in viso, dovette così raccogliere dignitosamente gli occhiali e avviarsi al suo crudele destino. Continuano così i ricordi dei sopravvissuti “Finito con l’ufficiale che ridussero in uno stato pietoso, cominciarono con noi e non rispettarono neppure quelli che di noi erano stati feriti. Terminato ci ordinavano di disporci a gruppi di dieci e al nostro passaggio ci colpivano con i calci dei moschetti e delle pistole” A gruppi così disposti furono condotti lungo il muro perimetrale del cimitero, cinque dal lato nord-est dove li attendeva il plotone di esecuzione comandato da Battista Torri e cinque dalla parte opposta nord-ovest, dove ad aspettarli invece c’era Bortolo Gusmeri con i suoi. Tra i primi cinque condotti al patibolo, il comandante Panzanelli. Li fucilarono senza aspettare che il parroco potesse confessare anche a chi chiedeva, come ultimo desiderio, il conforto dei Sacramenti. In fila per cinque contro il muro del cimitero, sul lato nord est vennero uccisi con normali fucili a ripetizione, dalla parte opposta invece si trovarono di fronte una potente mitragliatrice che martoriò e straziò i loro corpi. Durante le operazioni di eliminazione dei legionari, un ragazzo allora quindicenne riuscì a fuggire gettandosi dalla finestrella di un bagno di fortuna, era Fernando Caciolo, di cui ho riportato alcune testimonianze. Unici superstiti di questa crudele strage insieme a lui furono altri tre ragazzi di poco meno di quindici anni Vincenzo Ausili, Sergio Bricco e Cesare Chiarotti. Salvati questi ultimi da un intervento tardivo, ma decisivo del parroco che, finalmente, sentito il richiamo della veste che portava e abbandonato il suo pilatesco atteggiamento, si frappose fra i giovani e i loro assassini “Fummo risparmiati per intercessione del parroco di Rovetta il quale si parò davanti a noi e disse a “Fulmine” che se intendeva fucilare anche noi tre intendeva di essere sacrificato anche lui. Fu così che Fulmine ci risparmiò dicendoci che tale atto poteva costargli la vita” (Sergio Bricco dep. Pretura di Como, gennaio 1950). Se al sottotenente Panzanelli era stato riservato l’onore di essere ucciso per primo, al contrario, il ventenne Giuseppe Mancini, prima di essere passato per le armi, fu costretto ad assistere all’uccisione di tutti i suoi commilitoni solo perché era nipote del Duce, figlio della sorella Edvige. Il ragazzo, giovane sergente, dopo questo crudele trattamento, passando accanto ai suoi camerati li chiamò uno per uno a voce alta, terminato con onore il rito, si girò verso i suoi aguzzini e con una dignità e un coraggio fuori dal comune offrì loro il petto per la scarica finale. Un po’ di onore di fronte a tanta vigliaccheria. Finite le operazioni i soldati della Tagliamento furono scaraventati letteralmente oltre il muro del cimitero, senza rispetto alcuno e sepolti alla bell’ e meglio, in una fossa comune scavata in fretta e furia all’interno e non fu lasciato alcun segno distintivo che avrebbe potuto in seguito favorire il riconoscimento dei morti. Né venne lasciata nessuna traccia dei beni personali, orologi, oggetti d’oro e portafogli che mai furono riconsegnati ai familiari. Cadde su Rovetta, sul frastuono degli spari di quel giorno, sulle lacrime dei ragazzi sopravvissuti, sui corpi martoriati dei legionari, un silenzio complice, motivato dal desiderio di tacitare il rimordere della coscienza e ovviamente causato anche dalle pressioni esercitate sulla popolazione al fine di relegare nell’oblio la tremenda carneficina. Solo nel settembre del 1945, dopo una denuncia anonima, iniziarono le indagini sulla strage di Rovetta, che portarono a un processo terminato nel 1950 in cui tutti e sedici i partigiani rinviati a giudizio per “aver cagionato volontariamente e con particolare crudeltà la morte di 43 militi della divisione Tagliamento”, furono giudicati “non punibili”. Non starò qui a disquisire sull’appiglio della legge che considerava non punibili coloro che avevano agito per “necessità”: fu un assassinio, una strage crudele di giovani inermi che si erano arresi e contro i quali non esisteva nessuna “necessità” di lotta, ma questa fu la giustizia applicata ai giovani martiri di Rovetta. Una giustizia che consentì agli eroici partigiani di scaricare ogni responsabilità, di restare al sicuro e nel dopoguerra accampare diritti per meriti non propri, ricevere medaglie, incarichi, pensioni, prebende al prezzo del sangue di quei ragazzi che avevano scelto di combattere per l’onore d’Italia e morirono da uomini con coraggio, forti, eretti, senza piangere e senza implorare. A ricordarli oggi nel cimitero teatro della tragedia una lapide e una croce con i nomi dei 43 giovani legionari. I morti chiedono giustizia, è ora di conoscere i fatti, di recuperare completamente la nostra memoria storica senza censure o silenzi.
Tonale, gruppi eterogenei erano rimasti isolati nei presidi più defilati della Valcamonica. Un reparto, staccato dal grosso del contingente, era agli ordini del sottotenente Roberto Panzanelli. Si trattava di un plotone della sesta compagnia del battaglione Camilluccia, composto di trentaquattro elementi, molti dei quali giovanissimi. Durante gli ultimi giorni delle Repubblica si era attestato nell’albergo della famiglia Franceschetti presso il passo della Presolana in Valcamonica e, con ogni probabilità, fu proprio lì che Panzanelli ascoltò gli appelli radiotrasmessi che invitavano alla resa con l’assicurazione dello “status” di prigionieri di guerra e durante i quali veniva anche opportunamente comunicata la ormai quasi totale resa dei reparti operanti nel territorio. Dopo una breve consultazione con i suoi uomini il sottotenente, chiese al proprietario dell’albergo di accompagnarlo fino al vicino paese di Clusone, dove era attestata una esigua forza di partigiani locali, coi quali intendeva trattare la resa. Scendendo lungo la valle con la bandiera bianca, non si imbatterono in nessun gruppo di partigiani in cerca di gloria, l’unico incontro che fecero fu quello con un drappello di altri tredici legionari che, dopo alcune resistenze iniziali, si unirono a loro. I militi scendevano marciando in triste silenzio per valli e sentieri, erano lontani i giorni in cui risuonavano i rumori dei loro baldanzosi passi chiodati che si confondevano con le note dei canti “…per voi ragazze belle della via che avete il volto della primavera, per voi che siete tutta poesia e sorridete alla camicia nera…” La sera del 26 aprile 1945 si presentarono in fila a Rovetta, poco distante dalla meta che volevano raggiungere. Un paesino che è tuttora una piacevole località alle pendici delle Alpi Orobiche e che accolse con stupore e una certa indifferenza i nuovi arrivati. La popolazione infatti al posto dei fanatici sanguinari descritti dalla propaganda antifascista, vide sfilare per le strade dei ragazzi dallo sguardo sperduto, disorientato, tutti di un’età compresa tra i quindici anni dei più giovani e i ventidue dei più anziani. Sotto quegli elmetti, che per alcuni risultavano troppo grandi, le persone alle finestre, affacciate alle porte delle loro case, scorsero soltanto visi scavati da una stanchezza fisica e morale, dovuta sì alla marcia logorante, ma soprattutto alla tristezza di avere ancora nell’animo il forte desiderio di non abbandonare la lotta. Il plotone fu accolto da don Bravi, il prete del posto e da un ufficiale dell’ex regio esercito, il maggiore Giuseppe Pacifico, responsabili coordinatori della resistenza locale, i cosiddetti “patrioti” appena costituitisi, dopo la data del 25 aprile. Il comandante Panzanelli si intrattenne a lungo a colloquio con loro e, solo dopo aver ricevuto tutte le assicurazioni e le più ampie garanzie di salvezza per i suoi uomini, si apprestò a firmare la resa. La decisione non fu ampiamente condivisa dai militi, lo testimonia il racconto del legionario Fernando Caciolo, allora quindicenne “la triste notizia mi colse mentre insieme a pochi commilitoni stavo consumando qualche panino seduto su un muricciolo ai margini del paese. Due camerati vennero ad avvisarci (…)dopo una prima scomposta reazione rabbiosa, profondamente delusi, decidemmo di proseguire da soli(…)Poco dopo il Pacifico cominciò ad arringarci, invitandoci a deporre le armi, ad evitare altro spargimento di sangue tra italiani a guerra oramai conclusa, chiamandoci fratelli e garantendoci il trattamento dei prigionieri di guerra(…)ne seguì un abbraccio fra il nostro comandante e questo individuo, per cui seppur con profonda amarezza, ci accingemmo a deporre le armi sul pavimento, cosa che anche io feci mentre le lacrime mi riempivano il viso e mi sentivo umiliato e indifeso”(testimonianza di Caciolo, Anagni 22 novembre 1998). Dopo la firma della resa avvenuta tra il sottotenente Panzanelli e i due responsabili (documento peraltro di cui si sono perse le tracce e mai più ritrovato) i giovani vennero chiusi in alcune aule scolastiche messe a disposizione dal “comitato di accoglienza” poterono così riposarsi e rifocillarsi grazie al cibo offerto loro dalla popolazione. In zona oltre ai rappresentanti locali della resistenza, si aggiravano gruppi di sbandati che, a differenza, si definivano partigiani veri e propri e che si vantavano di questa particolare distinzione perché meritevoli, a loro dire, di aver militato in armi contro il nemico nazifascista. A sconvolgere la sostanziale tranquillità che regnava in paese, appena si sparse la notizia che a Rovetta, con la resa della Tagliamento, avevano, senza colpo ferire, riempito “l’armeria”, arrivarono tutti i gruppi di imboscati che si trovavano nei pressi e quella mattina del 27 aprile nel cuore della Valcamonica, si trovarono riuniti, per spartirsi il bottino e prendersi il merito dell’arresto, i principali esponenti della resistenza del posto. Così presto riemersero le contraddizioni e i contrasti che avevano caratterizzato questi gruppi fino ad allora. Come ben sappiamo in alcuni casi lo scontro tra le varie formazioni di tendenze opposte non si era limitato all’ambito dialettico, ma era sfociato in vere e proprie faide conclusesi con la eliminazione fisica degli avversari. Ricordiamo uno su tutti il caso eclatante di Porzus in Friuli, avvenuto nel febbraio precedente, quando i comunisti capitanati da “Geko”, passarono per le armi, senza tanti complimenti, i partigiani della brigata monarchica Osoppo. Fra questi lo zio del famoso cantante Francesco De Gregori. Dunque quella mattina c’erano tutti, Fiamme verdi, militanti della brigata Camozzi, rifacentesi al Partito d’Azione e rappresentanti della 53a brigata Garibaldi, di fede comunista. Ad accompagnarli vi era anche uno strano e misterioso uomo, che si ignorava precisamente chi fosse, si sapeva con certezza che si faceva chiamare il Moicano e che si trattava di un ufficiale del Soe (Special Operations Excutive). Un servizio di collegamento con l’esercito inglese per tenere sotto controllo le velleità rivoluzionarie della resistenza. Chi avesse disposto di uccidere i militi, ancora oggi è rimasto un mistero, perché vigliaccamente da par loro, dopo la guerra e durante le fasi processuali, si sono accusati l’un l’altro, si sono nascosti dietro assenze vere o fittizie, si sono scambiati nomi e identità e tutti quasi di comune accordo, indicarono il Moicano come colui che diede l’ordine, cosa peraltro smentita dallo stesso don Bravi, ma la realtà dei fatti non cambia, in seguito a quella malaugurata riunione di infami, il 27 aprile si decise l’eliminazione dei militi repubblicani della Tagliamento. In quelle ore venne prelevata da casa anche la giovane Amelia Angeloni colpevole di essere la fidanzata di un sottoufficiale già detenuto alla scuola di Rovetta. Fu condotta anch’essa nei pressi dell’edificio scolastico dove un uomo della Camozzi, tal Angelo Rossi detto “Buchi”, voleva prelevarla insieme al fidanzato per condurla in un cascinale fuori paese, solo l’intervento del maggiore Pacifico evitò il peggio, la ragazza fu lasciata fuggire e si nascose in casa di un abitante di Rovetta. Il maggiore però non mostrò altrettanto impegno nel salvare la vita dei militi della Tagliamento, perché da quel momento si fece di nebbia, lasciandoli sotto la custodia del parroco e di pochi altri paesani. Nel dopoguerra durante la testimonianza resa dal prete risultò aver detto testualmente prima di allontanarsi” Ho incontrato i comandanti partigiani della zona e mi dissero li facciamo fuori. Io risposi di non volerci entrare. Il “Buchi” messo in stato di all’erta dall’atteggiamento incerto assunto dal Cln di Rovetta, non perdeva di vista i combattenti repubblicani trasferiti e abbandonati dal Pacifico in una baita fuori dal paese. Verso sera al comando di un gruppo dei suoi, fece irruzione nel rifugio e, sotto la minaccia delle armi (forse le stesse da loro consegnate) i militi vennero derubati delle giacche a vento, delle mostrine e delle decorazioni, preziosi souvenirs da sfoggiare a guerra finita a riprova della militanza nelle file della resistenza. Racconta il sopravvissuto Fernando Caciolo “Il “Buchi” e tutti gli altri presero a gozzovigliare e si divertivano a immaginare di quale morte ci avrebbero ucciso, se tramite fucilazione o per impiccagione o ambedue, per il giorno successivo: queste le affermazioni che dal sovrastante locale ci venivano trasmesse a squarciagola. Ad ore alterne scendevano a maltrattarci, bastonarci e depredarci, tanto che a me fu strappata un’armonica a bocca regalatami dal compianto capitano Alberto Martinola, comandante la mia compagnia di appartenenza, la quinta, e caduto sul Mortirolo…” Fu una lunga notte, gran parte dei Legionari capì che quelle sarebbero state le loro ultime ore di vita e si preparavano con rassegnazione al peggio, mentre altri ostinatamente cercavano di trovare conforto nelle promesse fatte dai comunicati radiofonici e dalla parola data dai membri del comitato di liberazione di Rovetta. Era ancora buio, un’alba umida e grigia si alzava su un triste 28 aprile, i ragazzi della Tagliamento emaciati, feriti, infreddoliti vennero incolonnati all’esterno della baita e una leggera pioggia primaverile bagnava quei giovani visi già rigati di lacrime, mentre con le armi spianate i banditi conducevano il corteo verso il paese. Ad accoglierli vi erano tutti: altri partigiani della Camozzi, alcuni della 53° Garibaldi, il Moicano, Bepi Lanfranchi e Zaverio Fornoni, Bortolo Gusmeri, Battista Torri e non so chi dimentico in questo deprecabile elenco, ma nessuno poteva mancare al piacere di assistere e partecipare alla ormai decisa eliminazione dei fascisti della Tagliamento. Il prete don Bravi, (o “don Abbondio”?), oramai unico custode dei prigionieri dopo che Pacifico si era defilato, provò senza successo e forse con poca convinzione, almeno all’inizio, a intervenire in difesa dei legionari. Il sottotenente Panzanelli, era un timido giovane ventiduenne, con gli occhiali, poco più che ragazzo, con poca esperienza e con incarichi più grandi della sua età. Quando fu brutalmente informato dai nuovi arrivati del crudele destino che sarebbe toccato a lui e ai suoi soldati, provò a protestare, chiese udienza e, condotto davanti al comandante dei partigiani presenti, fu preso a pugni e schiaffi, tanto che gli fecero cadere gli occhiali. Cercò inutilmente di esibire la copia dell'atto di resa, ma fu fatto a pezzi davanti ai suoi occhi, chiese ancora che fosse lui soltanto a pagare, sollecitando per i suoi soldati un trattamento equo così come previsto dai patti sottoscritti, ma per tutta risposta gli strapparono gli ultimi effetti personali e gli sputarono in viso, dovette così raccogliere dignitosamente gli occhiali e avviarsi al suo crudele destino. Continuano così i ricordi dei sopravvissuti “Finito con l’ufficiale che ridussero in uno stato pietoso, cominciarono con noi e non rispettarono neppure quelli che di noi erano stati feriti. Terminato ci ordinavano di disporci a gruppi di dieci e al nostro passaggio ci colpivano con i calci dei moschetti e delle pistole” A gruppi così disposti furono condotti lungo il muro perimetrale del cimitero, cinque dal lato nord-est dove li attendeva il plotone di esecuzione comandato da Battista Torri e cinque dalla parte opposta nord-ovest, dove ad aspettarli invece c’era Bortolo Gusmeri con i suoi. Tra i primi cinque condotti al patibolo, il comandante Panzanelli. Li fucilarono senza aspettare che il parroco potesse confessare anche a chi chiedeva, come ultimo desiderio, il conforto dei Sacramenti. In fila per cinque contro il muro del cimitero, sul lato nord est vennero uccisi con normali fucili a ripetizione, dalla parte opposta invece si trovarono di fronte una potente mitragliatrice che martoriò e straziò i loro corpi. Durante le operazioni di eliminazione dei legionari, un ragazzo allora quindicenne riuscì a fuggire gettandosi dalla finestrella di un bagno di fortuna, era Fernando Caciolo, di cui ho riportato alcune testimonianze. Unici superstiti di questa crudele strage insieme a lui furono altri tre ragazzi di poco meno di quindici anni Vincenzo Ausili, Sergio Bricco e Cesare Chiarotti. Salvati questi ultimi da un intervento tardivo, ma decisivo del parroco che, finalmente, sentito il richiamo della veste che portava e abbandonato il suo pilatesco atteggiamento, si frappose fra i giovani e i loro assassini “Fummo risparmiati per intercessione del parroco di Rovetta il quale si parò davanti a noi e disse a “Fulmine” che se intendeva fucilare anche noi tre intendeva di essere sacrificato anche lui. Fu così che Fulmine ci risparmiò dicendoci che tale atto poteva costargli la vita” (Sergio Bricco dep. Pretura di Como, gennaio 1950). Se al sottotenente Panzanelli era stato riservato l’onore di essere ucciso per primo, al contrario, il ventenne Giuseppe Mancini, prima di essere passato per le armi, fu costretto ad assistere all’uccisione di tutti i suoi commilitoni solo perché era nipote del Duce, figlio della sorella Edvige. Il ragazzo, giovane sergente, dopo questo crudele trattamento, passando accanto ai suoi camerati li chiamò uno per uno a voce alta, terminato con onore il rito, si girò verso i suoi aguzzini e con una dignità e un coraggio fuori dal comune offrì loro il petto per la scarica finale. Un po’ di onore di fronte a tanta vigliaccheria. Finite le operazioni i soldati della Tagliamento furono scaraventati letteralmente oltre il muro del cimitero, senza rispetto alcuno e sepolti alla bell’ e meglio, in una fossa comune scavata in fretta e furia all’interno e non fu lasciato alcun segno distintivo che avrebbe potuto in seguito favorire il riconoscimento dei morti. Né venne lasciata nessuna traccia dei beni personali, orologi, oggetti d’oro e portafogli che mai furono riconsegnati ai familiari. Cadde su Rovetta, sul frastuono degli spari di quel giorno, sulle lacrime dei ragazzi sopravvissuti, sui corpi martoriati dei legionari, un silenzio complice, motivato dal desiderio di tacitare il rimordere della coscienza e ovviamente causato anche dalle pressioni esercitate sulla popolazione al fine di relegare nell’oblio la tremenda carneficina. Solo nel settembre del 1945, dopo una denuncia anonima, iniziarono le indagini sulla strage di Rovetta, che portarono a un processo terminato nel 1950 in cui tutti e sedici i partigiani rinviati a giudizio per “aver cagionato volontariamente e con particolare crudeltà la morte di 43 militi della divisione Tagliamento”, furono giudicati “non punibili”. Non starò qui a disquisire sull’appiglio della legge che considerava non punibili coloro che avevano agito per “necessità”: fu un assassinio, una strage crudele di giovani inermi che si erano arresi e contro i quali non esisteva nessuna “necessità” di lotta, ma questa fu la giustizia applicata ai giovani martiri di Rovetta. Una giustizia che consentì agli eroici partigiani di scaricare ogni responsabilità, di restare al sicuro e nel dopoguerra accampare diritti per meriti non propri, ricevere medaglie, incarichi, pensioni, prebende al prezzo del sangue di quei ragazzi che avevano scelto di combattere per l’onore d’Italia e morirono da uomini con coraggio, forti, eretti, senza piangere e senza implorare. A ricordarli oggi nel cimitero teatro della tragedia una lapide e una croce con i nomi dei 43 giovani legionari. I morti chiedono giustizia, è ora di conoscere i fatti, di recuperare completamente la nostra memoria storica senza censure o silenzi.
da "Ereticamente"
ROMA CIMITERO DEL VERANO
LE BARE DEI 43 MARTIRI TRASLATE AL VERANO
SALUTATE DA PARENTI E PERSONE PRIMA
DI ESSERE TUMULATI NELLA TOMBA
LE BARE DEI 43 MARTIRI TRASLATE AL VERANO
SALUTATE DA PARENTI E PERSONE PRIMA
DI ESSERE TUMULATI NELLA TOMBA
ROMA CIMITERO DEL VERANO LA TOMBA
IN MEMORIA DEL COLONNELLO MERICO ZUCCARI
Merico Zuccari nasce il 6
novembre 1906 a Saavedra nelle pampas argentine da Famiglia emigrata da
Montefano (MC), ma nel 1907 il padre lascia il lavoro nelle ferrovie di Buenos
Aires e rimpatria. Frequenta le Scuole Elementari al paese d'origine, dove la
diretta coltivazione di poderi consente al nucleo familiare una vita agiata.
Sposa Clara Trombettoni di Porto Recanati (MC) e nel 1932 ha una figlia, Maria.
Nel luglio 1922 si iscrive al PNF di Montefano e in ottobre partecipa alla Marcia
su Roma. Dopo le Scuole Medie a Macerata frequenta l'Istituto Tecnico Agrario e
nel 1924 segue corsi specializzati in ortofruttofloricoltura a Genova, dove
partecipa ad iniziative goliardiche fasciste. Compie studi anche all'Istituto
Tecnico Agrario di Ascoli Piceno e il 20 dicembre 1926 ottiene il diploma di
Perito Agrario a Todi. Assolto dal 16 ottobre 1926 il Servizio di Leva e dal 28
luglio 1930 Sottotenente di Fanteria, dal 1933 è in Tripolitania con il Corpo
Truppe Coloniali e dal 1935 in Eritrea quale Capomanipolo del 1.Battaglione
CC.NN. Coloniale. Il 24 gennaio 1936 nel Tembien con la Divisione CC.NN. 28
Ottobre e contro le bande di Ras Cassa e Ras Sejum difende Passo Uarieu per
consolidare la conquista di Macallé (2 gennaio 1936).Nel 1937 è effettivo alla
68.Legione CC.NN. di Imola (BO). Promosso Centurione l'1 gennaio 1938 per
Meriti in A.O. viene trasferito alla 2.Legione Libica. Il 14 dicembre 1940
resta ferito in Albania ad Hodati con relativa mutilazione al braccio destro
presso l'Istituto Ortopedico di Firenze. Dopo la convalescenza, è alla
6.Legione Universitaria di Genova e l'1 aprile 1943 diviene Seniore. Alle ore 2
del 26 luglio 1943 quale Comandante del XLI Battaglione “M” Armi
Accompagnamento 1. Divisione Corazzata CC.NN. si presenta a Trevignano (RM) al
Console Ermacora Zuliani che comanda il Gruppo Battaglioni Tagliamento per
aggiungere la sua opposizione a quella del Comandante del LXIII Battaglione “M”
1° Seniore Mario Rosmino, contro l' iniziativa del Console di vietare movimenti
di CC.NN. verso Roma. Nel settembre 1943 continua nella fedeltà all'alleato
tedesco e assume il Comando del LXIII Battaglione “M” che a Roma, radunatosi
alla Caserma Mussolini dal 14 settembre, sarà il nucleo della 1. Legione
MVSN
“M” impegnata in Abruzzo dal 29 settembre nella cattura di prigionieri di
guerra liberati dai regi. Nella 1. Legione "M" confluiscono gli
AA.UU. MVSN di Ostia e i resti del XVI Battaglione “M” che, reduce dalla
Balcania e in accampamento a Ponte Galeria nell'Agro romano, agli ordini del
Console Gustavo Marabini è l'unico a tentare di marciare sulla Capitale il 26
luglio 1943, però fermato alla Magliana da lanciafiamme e carri armati del
Corpo d'Armata Motorizzato comandato dal Generale Giacomo Carboni. Tenente
Colonnello dal 28 novembre 1943 e Colonnello dal 24 maggio 1944, in RSI comanda
gli oltre mille Militi della Legione GNR “M” Tagliamento, che avrà almeno 256
Caduti ed è stata secondo i tedeschi il Reparto più efficiente per la sicurezza
del territorio. Dopo ottimi risultati nel Vercellese e prima di raggiungere il
territorio di Sassocorvaro (PS) per compiti di retrovia sulla linea gotica, ai
quali seguiranno il rastrellamento del 21 settembre 1944 sul Monte Grappa e
presidi in Val Camonica, a metà giugno 1944 durante la lieta visita di iscritti
ONB di Bologna alla Legione in sosta a Villa Impero, ascolta e interroga, placa
ardori e invita gli Avanguardisti ad essere buoni patrioti. Termina la guerra
il 3 maggio 1945 a Revò nell'Alto Trentino occidentale e via Svizzera e Genova
inizia una latitanza con altro nome in Argentina che dura 14 anni mentre monta
in Italia la persecuzione giudiziaria. L'11 gennaio 1950, in un secondo
processo disposto dal Tribunale Supremo, è assolto dal Tribunale Militare di
Firenze che annulla la condanna a morte del 1947 emessa a Bologna. In congedo
dal 20 giugno 1955 ed espulso dall'Esercito il 29 luglio 1955, ottiene il
beneficio della liberazione condizionale il 9 novembre 1959 con virtuale
scarcerazione. La concessione è deliberata dal Tribunale Militare di Milano che
lo aveva condannato il 28 agosto 1952 alla pena dell'ergastolo. Poco dopo il
rientro in Italia, forse provato dalle forti emozioni in occasione dei
festeggiamenti da parte di Commilitoni e paesani, muore a Montefano (MC) il 5
dicembre 1959 per infarto cardiaco.
CIMITERO DI MONTEFANO
- LA TOMBA